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LA CAPACITÀ DISTINTIVA DEI MARCHI ED IL SUO EFFETTO SULL’INTENSITÀ DELLA RELATIVA TUTELA

La Corte di Cassazione ha recentemente affrontato il tema della capacità distintiva dei marchi, della sua graduazione e dei relativi effetti sulla registrabilità dei segni e sull’intensità della tutela che ne deriva.

La decisione affronta poi il tema del cosiddetto “passaggio logico intermedio” per affermare che termini particolarmente comuni in un determinato settore commerciale possono dare luogo a marchi deboli pur in assenza di un nesso logico o evocativo diretto tra il segno e il prodotto o servizio contraddistinto.

Con una recente ordinanza emessa lo scorso 13 dicembre 2021, la Corte di Cassazione ha affrontato la tematica – già più volte discussa – della relazione che intercorre tra la capacità distintiva dei marchi e l’ampiezza della tutela di cui questi godono; contestualmente, l’ordinanza esamina il tema del rapporto tra la capacità distintiva di un segno e la sussistenza di un nesso logico o evocativo diretto tra questo e il prodotto o servizio contraddistinto.

Nel caso in esame, la società attrice lamentava la contraffazione dei propri marchi anteriori BORRO e IL BORRO, protetti per vini, ad opera del segno successivo IL BORRO DEL DIAVOLO, utilizzato dalla convenuta per contraddistinguere i medesimi prodotti; dal canto suo, la convenuta negava la contraffazione e - in via riconvenzionale – chiedeva dichiararsi la nullità dei marchi anteriori BORRO e IL BORRO, per carenza di capacità distintiva.

Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello avevano respinto sia la domanda di contraffazione attorea che la domanda di nullità formulata dalla convenuta, affermando che la parola “borro” è sì dotata della minima capacità distintiva necessaria ad ottenerne la registrazione come marchio che rivendica protezione per i vini, ma non costituisce un marchio sufficientemente forte da consentire al proprio titolare di opporsi all’uso e/o alla registrazione di segni successivi che alla parola “borro” associno altri elementi verbali autonomamente distintivi, come nel caso del marchio contestato BORRO DEL DIAVOLO.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 39765 del 13/12/2021 ha confermato la sentenza della Corte d’Appello, respingendo il ricorso presentato dalla società attrice. Le motivazioni della sentenza offrono utili spunti di riflessione in tema di capacità distintiva dei marchi e un sunto efficace dei principali orientamenti giurisprudenziali in materia.

Per poter ottenere protezione come marchio, un segno deve possedere capacità distintiva, che normalmente è garantita da un distacco concettuale fra il segno e il prodotto o servizio che esso contraddistingue.

D’altro canto, la capacità distintiva non è una caratteristica discreta che può dirsi presente o assente, ma piuttosto una variabile che si muove secondo una ideale curva progressiva del parametro della capricciosità e dell’arbitrarietà del collegamento tra il segno e il prodotto, che va dalla generica denominazione del prodotto o servizio stesso (che possiede un tasso di distintività pari a zero), sino all’assenza assoluta di collegamento logico (distintività massima). Se il collegamento logico è intenso, si parla di marchio debole, se il collegamento logico si fa sempre più evanescente, si parla di marchio sempre più forte.

Tutti i segni dotati di un gradiente anche solo minimo di capacità distintiva possono essere tutelati come marchi, ma il livello di tutela garantito dall’ordinamento muta - in termini di intensità - a seconda della loro qualificazione quali marchi «forti» (e cioè costituiti da elementi di fantasia senza aderenze concettuali con i prodotti contraddistinti) o «deboli» (ossia costituiti da elementi aventi una evidente aderenza concettuale rispetto ai prodotti contraddistinti).

In tal senso, se un marchio è considerato debole, anche lievi modificazioni o aggiunte sono sufficienti ad escludere la confondibilità, mentre, al contrario, per il marchio forte devono ritenersi illegittime tutte le variazioni e modificazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del «cuore» del marchio, ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandolo in modo individualizzante[1].

Nel caso di specie, si è osservato che secondo l’Enciclopedia Treccani, il bórro è un «fosso grande per ricevere le acque dei vari fossetti e solchi che attraversano i campi; canale di scarico delle paludi; canale in declivio scavato dall’erosione delle acque; piccolo torrente»: secondo il Dizionario Sabatini Colletti è un «canalone torrentizio prodotto dallo scorrimento delle acque di superficie su una parete ripida; canale di scolo di una palude; canale che raccoglie le acque di scolo dei campi»; secondo Repubblica è un «fosso profondo e scosceso scavato dalle acque, rivestito di piante selvatiche»; secondo il Dizionario Garzanti è un «(region. sett., tosc.) piccolo torrente dal letto profondo e scosceso, fosso che raccoglie le acque di scolo dei campi, canale di scarico di una palude»; secondo il Dizionario Devoto-Oli è un «fosso o piccolo torrente che vien giù per il bosco o attraverso i campi»; secondo il Grande Dizionario illustrato Gabrielli è un «fosso piuttosto profondo e scosceso scavato dalle acque rivestito di piante selvatiche».

Pur volendo provare a cercare un nesso logico o evocativo diretto fra il canalone dirupato o il fossato di scolo e il vino, non si può fare a meno di concludere che i vigneti non possono essere coltivati proficuamente né in canaloni scoscesi, né in fossi di scolo. Pertanto, sotto questo profilo, il collegamento vino-borro, secondo il ricordato paradigma della distintività, sarebbe arbitrario e autorizzerebbe l’interprete ad affermare che i marchi BORRO e IL BORRO – ove utilizzati per contraddistinguere i vini - siano «forti».

Tuttavia, come insegna proprio l’arresto oggetto del presente commento, in questi casi è altresì necessario estendere la valutazione sul collegamento tra marchio e prodotto, includendo anche eventuali passaggi logici intermedi, che siano di uso comune nel settore di riferimento.

Nel caso di specie, il termine geografico «borro», quale indicatore di una particolare morfologia di un terreno, è comunemente associato ad un uso toponomastico volto a identificare i poderi o le tenute agricole insediate in luoghi con quella particolare conformazione. Viene quindi in considerazione una prassi invalsa di contraddistinguere i vini con riferimenti di carattere solo latamente geografico, utilizzando termini generici descrittivi di uso comune per evocare una certa caratteristica morfologica del territorio o di un tipico agglomerato abitativo (borgo, colli, poggio, pieve, rocca, castello, terra....) e associando loro ulteriori designazioni più prettamente geografiche e localizzatrici, spesso collegate a una località coincidente con quella ove è situata l’azienda vinicola del produttore.

In tal modo ciò che assume rilievo non è lo specifico luogo menzionato, sul quale talora non possono essere collocate le viti (in una rocca, in un castello o in una corte, come nel borro), quanto il fondo su cui insiste l’azienda vinicola, caratterizzato ed evocato, per sineddoche o metonimia, dalla particolare caratteristica morfologica del terreno o da una particolare struttura edificata su di esso.

Sintetizzando l’articolato ragionamento svolto dalla Corte, dunque, il termine «borro» designa una particolare conformazione del terreno, non di rado associata al posizionamento delle vigne e si ritrova in molte indicazioni toponomastiche di poderi, tenute agricole e borghi, sì da rappresentare una parola di uso comune nell’ambiente agricolo, e dunque vitivinicolo.

Il principio espresso dalla sentenza in commento consiste – dunque – in questo: la caratteristica di “debolezza” o “forza” di un marchio, che riverbera i suoi effetti sull’ampiezza della tutela di cui esso gode, non può essere valutata soltanto sulla base dell’eventuale esistenza di un nesso logico o evocativo diretto tra il prodotto/servizio e il segno, ma deve essere estesa anche ad eventuali ulteriori passaggi logici intermedi, a condizione che questi siano di uso comune nel settore di riferimento.

Altra doglianza di un certo rilievo formulata dalla ricorrente riguarda il fatto che la capacità distintiva dei propri marchi “BORRO” e “IL BORRO” avrebbe dovuto essere considerata accresciuta a motivo dell’uso intenso che questa ne ha fatto sul mercato e che da tale accresciuta capacità distintiva sarebbe dovuto discendere l’accoglimento delle proprie domande di contraffazione.

Tale doglianza è stata respinta dalla Corte di Cassazione per ragioni formali, non prima però di aver ricordato alcuni principi cardine della materia, utili in questa sede a completare la disamina relativa all’influenza della capacità distintiva di un marchio sull’ampiezza della tutela ad esso accordata.

In particolare, è stato ricordato che un segno, originariamente sprovvisto di capacità distintive per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, può acquistare tali capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato, così che l’ordinamento si trova a recepire il fatto dell’acquisizione di una distintività.

Tale principio, legislativamente previsto soltanto per il caso del marchio non distintivo che acquisisce distintività tramite l’uso intenso sul mercato e dunque diventa tutelabile come marchio, è stato esteso dalla giurisprudenza anche al caso della trasformazione di un marchio originariamente debole in uno forte con il conseguente riconoscimento della medesima tutela accordata ai marchi originariamente forti.

Ne deriva che un marchio originariamente debole per le sue caratteristiche intrinseche può diventare un marchio forte in ragione dell’uso che ne sia stato fatto e della riconoscibilità acquisita presso il pubblico di riferimento in ragione di tale uso; pertanto, l’accertamento della contraffazione di un marchio originariamente debole, e successivamente divenuto forte, va effettuato in base agli stessi criteri che presiedono alla tutela del marchio forte ab origine. Ovviamente, il fenomeno di trasformazione da marchio debole a marchio forte deve essere specificamente provato, producendo documentazione idonea a dimostrare un uso intenso sul mercato, sia sotto il profilo commerciale che sotto quello pubblicitario.

Nemio Giuliano

 

[1] Cass. Civ., Sez. 1, n. 8942 del 14.5.2020; Cass. Civ., Sez. 1, n. 10205 del 11.4.2019; Cass. Civ., Sez. 1, n. 15927 del 18.6.2018; Cass. Civ., Sez. 1, n. 9769 del 19.4.2018; Cass. Civ., Sez. 1, n. 22953 del 10.11.2015.

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